Abbiamo già parlato dell’oggettivazione sessuale e del processo di auto-oggettivazione di cui sono vittime le donne, associandolo ai “miti dello stupro” (si rimanda all’articolo https://www.lacuradeltempo.com/blog-detail/post/108686/i-miti-dello-stupro---perch%C3%A8-le-donne-non-denunciano).
Oggi voglio fare un passo indietro, indagando il ruolo della cultura nell’oggettivazione sessuale.
Il modo di percepire il corpo dipende dal contesto culturale in cui vive la persona. Per Friedrickson e Roberts, psicologhe sociali, l’oggettivazione sessuale si innesta in una cultura impregnata di eterossessualità, nella quale l’oggettivazione delle donne si manifesta in varie forme, da quelle più estreme a quelle più velate.
Nel corso degli anni si sono raccolte diverse testimonianze, anche se scarne, riguardo l’oggettivazione sessuale delle donne nei vari contesti culturali, a partire dall’analisi dei comportamenti degli italiani rivolti verso le donne già negli anni del colonialismo. I lavori svolti in questo scenario si concentrano maggiormente su due aspetti: il primo riguarda la percezione delle donne nella cultura degli italiani e il secondo aspetto riguarda le relazioni sessuali instaurate tra donne africane e colonizzatori italiani; entrambi gli aspetti delegittimavano la figura della donna in base alla razza, al genere e allo status sociale. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’immaginario italiano, fino alla conquista dell’Etiopia, si colloca in linea con la “porno-tropics tradition”, ossia una tradizione culturale che accosta la conquista della colonia alla donna, costruendo rapporti di dominio nelle esperienze coloniali. Questa tradizione poggia le sue basi sulla metafora della “Venere nera”, che vedeva ridurre la figura della donna africana all’erotismo, trattata solo come oggetto sessuale, grazie alla quale nasce il concetto di “harem coloniale”, un gineceo che rendeva più leggero il trasferimento degli italiani da una colonia ad un’altra. Per quanto riguarda le relazioni instaurate tra donne africane e colonizzatori italiani, la maggior parte degli studi si sono concentrati sul fenomeno del “madamato”, ovvero una relazione temporanea tra un cittadino italiano ed una donna nativa delle terre colonizzate, chiamata appunto madama.

Questi tipi di violenze sono difficili da documentare e possiamo solo attingere a diverse testimonianze, come ad esempio quello di una donna eritrea che ha raccontato di come le donne fossero terrorizzate del trattamento che i colonizzatori riservavano loro. Altre testimonianze denunciavano le false cerimonie nuziali tra colonizzatori e suddite africane, e altri raggiri a scopo sessuale.
Con l’emanazione delle leggi razziali, c’è stato un aumento delle violenze sessuali perpetrate nei confronti di donne. Barrera spiega come alcune documentazioni raccontino un aumento delle molestie sessuali nel periodo di conquista dell’Etiopia, che si protrassero nel tempo con l’arrivo delle camicie nere, come documentò Maria Messina, una donna italo-eritrea, in un’intervista condotta da Barrera. Solo grazie a lui oggi abbiamo documentazioni dirette fatte da donne che hanno vissuto gli anni del colonialismo e sono state testimoni di violenze sessuali; oltre a queste, abbiamo poco materiale su cui poter lavorare per indagare meglio i fenomeni di violenza comuni in questo scenario. I motivi delle poche testimonianze sono da associare alla censura delle vicende coloniali in cui si manifestavano le violenze di genere e la necessità di ricreare un’identità collettiva degli italiani dopo il colonialismo ha distolto l’attenzione dagli orrori commessi in quegli anni.
Nello scenario delle violenze sessuali durante il colonialismo, è importante il concetto di “disimpegno morale” introdotto da Bandura, con il quale si cerca di spiegare i motivi per cui venivano commessi tali orrori. In primis, la percezione degli africani come gente con uno status inferiore a quello dei colonizzatori, portava questi ultimi a pensare alle proprie azioni come meno immorali, giustificando quindi le violenze commesse, mentre, la minimizzazione della colpa del singolo portava a una diffusione di responsabilità, per cui i carnefici si sentivano “meno in colpa” per le azioni commesse. Allo stesso tempo c’era una sorta di inibizione del controllo morale dovuto a una distorsione di ciò che si commette, poiché i colonizzatori, compiendo violenze, cercavano di nasconderle al pubblico e, infine, la percezione degli africani come status inferiore portava i colonizzatori a pensare che le vittime si meritassero le violenze subite. Questi fattori implicano la deumanizzazione di un bersaglio e sono analizzati anche in altri casi di oggettivazione sessuale, infatti, nonostante ci sono pervenute poche ricerche riguardo l’oggettivazione durante il colonialismo, negli anni successivi sono stati svolti diversi studi che indagano il ruolo della cultura.
A più di un secolo dal colonialismo, nonostante crediamo di esserci emancipati e di essere cresciuti culturalmente, la situazione non credo sia molto cambiata. Sicuramente fenomeni di molestie sessuali sono ancora frequenti ai giorni nostri e ancora troppo sottovalutate. Ultimamente infatti si discute molto del fenomeno di “cat calling”, molestie stradali di cui ogni donna è vittima ogni giorno; possibile che nel 2021 si debba ancora discutere di certi fenomeni che non dovrebbero neanche più esistere?
Per approfondimenti:
· Pacilli, M. G. (2014). Quando le persone diventano cose: corpo e genere come uniche
dimensioni di umanità. Il mulino.
· Volpato, C. (2009). La violenza contro le donne nelle colonie italiane. DEP n.10, 111-131.
· Brown, R. (1990). Psicologia sociale dei gruppi: dinamiche intragruppo e intergruppi. Il mulino.
Mina Turi
Laureata in Psicologia dei Gruppi, Comunità e Organizzazioni
minaturi29@gmail.com