La vita di ogni individuo si intreccia nel corso del tempo a molteplici eventi, situazioni, occasioni che possono agevolare o ostacolare il proprio vissuto. Se pensiamo al mondo femminile, tra i momenti più emozionanti che la donna possa vivere è senza dubbio da considerare la nascita di un figlio, quindi la gravidanza. Non tutte le donne vivono questo momento nella medesima maniera: in alcuni casi essa è stata programmata e voluta, in altri è avvenuta per caso, in altri ancora è arrivata troppo precocemente o troppo tardi.

Tutto questo ovviamente andrà in qualche modo ad influenzare il modo in cui la donna vivrà e affronterà sia la gravidanza sia la maternità che segue. Nonostante ciò la gravidanza è quasi sempre un lieto evento. Essa porta con sé momenti di felicità, di condivisione degli affetti, di giochi e di serenità.
Gravidanza e maternità: son sempre rose e fiori?
Nonostante l’idea di avere un bambino e quella di “essere genitore” abbiano in sé i connotati di eventi che difficilmente si immaginano associati a caratteristiche spiacevoli, esse comportano in realtà trasformazioni di non poco conto nella vita della gestante: trasformazioni della fisicità, della sfera psicologica, di quella sociale e lavorativa, cambiamenti che possono comportare esiti positivi e negativi, ai quali ogni donna in attesa inevitabilmente deve adattarsi per affrontare al meglio i lunghi nove mesi. Tuttavia, quando pensiamo alla nascita di un bambino non dobbiamo dimenticare che essa può stravolgere anche la vita e le abitudini di chi, come la futura madre, condivide il medesimo ambiente del nascituro (un partner, altri figli, un genitore e così via).
Possiamo allora pensare a questo lieto evento come una sorta di “gioiosa metamorfosi” a cui ognuno deve adattarsi nell’ottica di ricevere da parte del nuovo arrivato felicità, speranza, soddisfazioni e momenti di gioia.
Tuttavia non sempre va così e sin dalla scoperta della gravidanza non è tutto “a colori”. Soprattutto nelle primipare, alle prime armi con questa nuova esperienza, può accadere che la notizia della gravidanza comporti una serie di emozioni contrastanti che influenzano l’umore della donna e determinano lievi o intensi momenti di ansia, preoccupazione, sfiducia nelle proprie capacità e paura di non essere all’altezza del ruolo di madre. In questi casi conta molto il tipo di ambiente che circonda la donna: la presenza di un partner stabile e responsabile, l’aiuto dei genitori, il sostegno di un’amica e/o la certezza economica, tutti fattori che fungono da protezione per la donna e per la crescita del feto, alleviando in qualche modo le sue preoccupazioni e il carico emotivo della situazione stessa. Tutte queste incertezze, queste ansie, possono però ricomparire anche al termine della gravidanza, quando la neo-mamma ha tra le sue braccia il bambino su cui per tanti mesi ha fantasticato. Adesso gli spazi che sono stati creati vengono finalmente riempiti da sorrisi e pianti del piccolo e ciò comporta necessariamente un cambiamento della situazione a cui spesso si fa difficoltà ad abituarsi. Cambiano i propri ritmi biologici perché devono adattarsi necessariamente a quelli del bambino, l’allattamento può andare incontro a delle problematiche, la stanchezza aumenta, le energie fisiche sono messe a dura prova e la tranquillità mentale e psicologica può essere mortificata da indecisioni, timori, ansie.
Ed è in questi momenti che avanza maggiormente la possibilità che nel puerperio insorgano disturbi psicopatologici legati alla gravidanza. Questo probabilmente è dovuto alla maggiore vulnerabilità della donna a seguito del parto e con l’ingresso nel ruolo di madre che può acuire sintomatologie negative manifestatesi in precedenza, anche durante i nove mesi. A tal proposito, nel 2007 Bellantuono e colleghi hanno evidenziato tra i disturbi affettivi ad esordio nel post-partum il cosiddetto “mathernity blues” conosciuto anche come “milk fever” o ancora “transitory syndrome”. Si tratta appunto di una sindrome transitoria la cui frequenza è particolarmente elevata, infatti oscilla dal 20% all’80% di tutte le donne che hanno partorito, con una media intorno al 40-50%. La sintomatologia si manifesta solitamente in corrispondenza del terzo/quarto giorno di maternità e persiste per circa una settimana, entro la quale di solito si autolimita fino a ridursi e scomparire. Il sintomo centrale è costituito dalla facilità al pianto unito a orientamento depressivo dell’umore, ansia, cefalea, irritabilità, disturbi del ritmo sonno-veglia, diminuzione della capacità di concentrazione e difficoltà del pensiero (che talvolta può anche trasformarsi in leggero stato confusionale).
A proposito dell’origine di tale condizione, nell’ambito della letteratura sono state avanzate svariate ipotesi per cui alcuni spiegano come essa sia una conseguenza dell’alterazione momentanea del profilo psicoendocrino della donna, che può comportare difficoltà nell’assumere la funzione materna. Ciò a conferma del fatto che sono i fattori di rischio biologici (legati ai cambiamenti ormonali) ad essere implicati (insieme ad una eventuale depressione durante la gestazione, difficoltà di allattamento naturale, sindrome premestruale) piuttosto che quelli socio-ambientali o quelli legati ad eventuali patologie del neonato. Un’altra ipotesi avanzata ha connotati più propriamente psicologici: essa sostiene infatti che la sintomatologia è una reazione conseguenziale alla separazione della madre da quella condizione di simbiosi che per lunghi nove mesi l’ha tenuta unita al proprio bambino, vissuta come una vera e propria perdita. A questo si aggiungono poi i timori relativi alla capacità o meno di svolgere adeguatamente il ruolo di madre e il suo orientamento affettivo molto labile.
È difficile pensare al mathernity blues come una vera e propria condizione psicopaologica. Si può pensare ad essa perlopiù come una reazione fisiologica che accompagna la neo-mamma nei giorni successivi al parto; ciò è dimostrato dal fatto che non si richiedono interventi psicoterapeutici o farmacologici per contrastare la sintomatologia, al contrario di quanto invece accade per i casi di depressione post-partum e psicosi post-partum. Pur non essendo una vera e propria malattia occorre sapere però che talvolta essa può andare incontro ad una evoluzione diversa per cui la sintomatologia può durare più del previsto e con connotati più marcati rispetto alla norma, oppure può evolversi in quadri clinici drastici come la depressione o la psicosi post-partum.
Dunque, anche se la rilevanza clinica del mathernity blues non è poi così notevole bisogna stare comunque attenti alle sue conseguenze e soprattutto informarsi su di essa. Ciò infatti aiuta sia a prevenire eventuali errori di interpretazione della sintomatologia (“è nato mio figlio ma sono triste. Cosa mi sta succedendo?”) sia a gestire e affrontare nel miglior modo possibile il proprio stato psicofisiologico, in virtù della protezione del benessere del bambino appena nato e anche di quello materno, in modo tale da evitare qualsiasi intralcio alla maternità (“ok, si tratta del mathernity blues”).
Approfondimenti:
Bellantuono e coll. (2007). L'impiego dei farmaci antidepressivi nel puerperio. Recenti Progressi in Medicina.
Paola Benvenuti (2007). Psicopatologia dell’arco di vita. Seid editori
Dott.ssa Rosita Falce