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Dott.a Valentina Urso

Ripensare la spazialità nella relazione ai tempi del Covid-19 - Riflessioni sulla pandemia

“C’è una cosa che mi fa un po’ paura, ed è il concetto di normalità. Noi stiamo pericolosamente andando verso il principio che quello che stiamo facendo è normale, che stare chiusi e lontani è normale, no, è eccezionale! E siamo anche un popolo eccezionale che lo sta mettendo in atto. Ma la normalità non esiste, esiste la natura e gli uomini hanno bisogno di stare vicini e sono stati vicini anche dopo le grandi pandemie, non c’è un futuro senza vicinanza, senza stare insieme. Uno dei miei ruoli, dei nostri ruoli, del ruolo dell’arte e della musica, sarà quello di educare e con dolcezza accompagnare a quella che è la nostra natura! Non normalità, perché certe normalità, quelle aberranti che portano alla distruzione, quelle son anche normalità ma sono contro natura!” Ezio Bosso, intervista a Propaganda Live del 10 aprile 2020. Mossa da questo magnifico pensiero di Ezio Bosso sento la necessità di maturare delle riflessioni su ciò che è accaduto in questi ultimi mesi. A causa di una minaccia invisibile siamo stati costretti a rivedere molti aspetti della nostra esistenza: il lavoro non è stato più lo stesso, ci son state delle ripercussioni non trascurabili a livello economico, dubbi si son aggiunti sul futuro e le relazioni con le altre persone son cambiate.

Vorrei soffermarmi principalmente su quest’ultimo elemento, ovvero su come la relazione abbia subito delle modifiche, in termini di spazialità, a seguito di questo evento pandemico.


Ma partiamo dall’inizio. “In principio è la relazione” diceva Buber. Abbiamo la consapevolezza di essere degli esseri sociali, questa constatazione è stata il punto di convergenza di diversi ambiti come la filosofia, la psicologia e le neuroscienze. Adottando punti di vista e metodologie diverse, i tracciati più lontani son arrivati a congiungersi dimostrando come l’uomo abbia la necessità di entrare in relazione con qualcuno. C’è chi è arrivato a questa conclusione studiando il cervello, ed è il caso delle neuroscienze, le quali hanno dimostrato come lo sviluppo neurale sia influenzato dalla relazione con un Altro significativo (caregiver).


Cozolino nel libro Il cervello sociale riporta una serie di studi in cui si evidenzia come una congiuntura amorevole di sguardi, vocalizzi e carezze, a cui siamo naturalmente predisposti, sia in grado di avviare una cascata di sostanze responsabili della crescita e del modellamento dei diversi circuiti cerebrali. C’è chi è arrivato a questa conclusione esplorando il mondo animale. Harlow osservò la preferenza apparentemente insolita di un cucciolo di macaco: il piccolo, posto di fronte a due madri qualitativamente diverse (la prima in ferro ma dotata di un meccanismo in grado di nutrire il piccolo e la seconda sempre in ferro ma rivestita di pelliccia), scelse colei verso la quale poteva sviluppare una vicinanza, una calorosa mescolanza di carni, sacrificando l’opportunità di nutrirsi. E infine c’è chi lo ha dimostrato mediante concatenazioni logiche: postulata l’intenzionalità della coscienza (Brentano e Husserl), ovvero la capacità di essere sempre diretta verso qualcosa, Callieri afferma: “Non sarà mai fatica sprecata ripetere che, se la coscienza è essenzialmente intenzionalità (fatti salvi tutti i diritti della “mente neuronale”) e se l’esserci è sempre esserci-nel-mondo (“dire Io è dire Io-nel-mondo”: Heidegger), l’Io si pone sempre e soltanto in relazione.” Il soggetto relazionale è da intendersi un soggetto “che non si limita ad entrare in relazione con gli altri soggetti o con gli altri enti del mondo, ma che è esso stesso costituito da tale relazione” (Dadà). Viene quindi ad essere abbandonata la concezione di un ente isolato e autonomo per arrivare alla delineazione di un soggetto facente parte di un tessuto il cui intrecciarsi della trama e dell’ordito sta a rappresentare le infinite intersezioni relazionali dovute all’esistenza di altri soggetti. Dopo questa brevissima panoramica della relazione nei diversi ambiti, torniamo al nocciolo della riflessione: a causa di questo virus c’è stato un cambiamento della spazialità nelle relazioni. L’aspetto della spazialità messo spietatamente in ginocchio è la prossimità. È cambiato l’atteggiamento verso chi ci è prossimo, verso colui che, come dice Zoja, ci sta vicino, su cui possiamo posare la mano e lo sguardo. “È obbligatorio mantenere la distanza di almeno un metro”, ricorda la direttiva sanitaria. Gli assembramenti son visti come un ricettacolo di morte e le relazioni sono vissute con un background paranoico. Il costante sospetto che l’Altro con cui si entra in relazione covi la possibilità di nuocere alla propria salute è assillante. Si è istituito un galateo della strada per evitare di incontrarsi sullo stesso lato del marciapiede, si son creati dei codici più o meno impliciti che regolarizzano l’incontro con l’Altro. Ma d’altro canto c’è chi non ci sta e mi chiedo se queste esplosioni di assembramenti da parte dei più impavidi, oltre a rappresentare un possibile diniego dell’angoscia di morte, siano una sorta di inconsapevole ribellione agli attentati inferti alla prossimità. Chi può saperlo? Certo è che l’isolamento non è salutare, i neuroni che non stringono connessioni muoiono, le persone che recidono le relazioni tendono ad essere sofferenti, a mostrare tratti depressivi e tendenze suicidarie. Con questo non intendo assolutamente schierarmi contro gli organi scientifici e le direttive per contrastare la diffusione del coronavirus, anzi, è doveroso rispettarle per tornare quanto prima ad essere ognuno il prossimo dell’Altro ed evitare che le dannose condizioni di isolamento continuino a protrarsi nel lungo periodo. È solo una riflessione, un pensiero che nasce dal trovarsi improvvisamente in questo crocevia di tendenze opposte. Abbiamo bisogno di stare vicini, è un aspetto naturale dell’esistenza umana, riprendendo il pensiero del grande Bosso: “Non c’è un futuro senza vicinanza, senza stare insieme”. La lontananza causata da una pandemia, come la lontananza favorita dall’iper-connessione virtuale, la lontananza razzista dettata da alcune linee politiche o ancora, la lontananza causata dalla stigmatizzazione sociale di un disturbo psichico, tutte queste tipologie di lontananze non sono da ritenersi fenomeni normali ma eccezionali. Possono essere vissute come normalità, ma son normalità che hanno un nucleo aberrante, disumanizzante, generative di mondi interni psicotici. Son delle navi che remano controcorrente alla nostra impostazione genetica, alla nostra formazione neurale, alla nostra costituzione ontologica. Aspetteremo tempi migliori per poter ritornare a praticare amorevoli e spensierati atti di prossimità.

Articolo a cura della Dott.a Valentina Urso Dottoressa in Psicologia Clinica e della Salute vale.urso94@gmail.com


Riferimenti bibliografici: Buber, M., (1923), Io e tu. In Il principio dialogico. Edizioni di Comunità, Milano. Callieri, B., (1998), Il piano interpersonale dell’incontro. Comprendere VIII p. 29-35 Cozolino, L., (2008), Il cervello sociale. Neuroscienze delle relazioni umane. Raffaello Cortina, Milano. Dadà, S. (2019), Relazione e Alterità. Inschibboleth, Roma. Harlow, H.F. (1958), The nature of love. American Psychologist, 13, 673-685. Zoja, L., (2009), La morte del prossimo. Einaudi, Torino.

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