Comincerei da una piccola questione metodologica: le definizioni sono sempre un buon punto di partenza. Anche se complesse (e non sarà questo il caso), servono a semplificare, se non la comprensione (quando troppo sofisticate, appunto), quantomeno l’analisi del concetto, perché in ogni caso ne restringono l’ambito dell’indagine. Abbiamo, tuttavia, un problema: il terzo settore non nasce in ambito giuridico e, segnatamente, in Italia non aveva una propria autonoma ed organica disciplina fino al 2016. Di conseguenza, parlare di terzo settore e quindi definirlo usando esclusivamente gli strumenti, i criteri e il linguaggio del diritto nostrano equivarrebbe a scrivere la biografia di un bambino di appena otto anni. Beninteso, trattasi di un’iperbole, dato che di materiale normativo ne è stato prodotto a sufficienza per coprire lo spazio che qui devo occupare, ma nelle formule generali o nelle disposizioni tecniche delle norme si andrebbe a perdere quella cifra di pregnanza del concetto che possiamo recuperare esclusivamente risalendo all’origine del termine. E questa origine, come dicevo, non è giuridica, bensì socio-economica. La troviamo in un articolo americano del 1973, a firma del sociologo del comunitarismo di origini israeliane, Amitai Etzioni, pubblicato sul Journal of Public Administration Review, dal titolo “Third sector and the role of welfare state”. Per la prima volta compare il nome di terzo settore. Quindi finalmente, cos’è questo terzo settore? È l’insieme di tutti gli enti intermedi tra Stato e individuo, di carattere privatistico (il sociologo Paolo Donati lo definiva il “privato sociale”), ma non commercialistico. Per comprendere cosa ciò voglia dire, basti rispondere a un’altra tanto elementare quanto centrale domanda: terzo settore, ma terzo rispetto a cosa? Rispetto allo Stato e al mercato capitalistico; a metà tra gli enti pubblici e quelli privati di natura, come va di moda dire da tempi risalenti, “profit”. Tant’è vero che, in America, gli enti del terzo settore, dal momento che divennero progressivamente di pubblico dominio, dal 1973, furono presto aggregati ai già noti enti “no profit”. In quel titolo di giornale summenzionato già emerge un elemento di chiarimento circa le esigenze che portarono alla formazione e poi all’affermazione del terzo settore, ossia la crisi del welfare state. Questa colpiva tutto l’Occidente, quindi anche l’Europa, quindi anche l’Italia che qui ci interessa. Il nostro codice civile guardava con diffidenza ai corpi intermedi tra Stato e individuo, per ragioni storiche che non si possono qui approfondire, e ciò ha causato grande difficoltà nell’accoglimento di questo nuovo settore nel nostro ordinamento. Tuttavia, lo Stato del welfare, che si reggeva in piedi grazie ai prelievi fiscali ormai divenuti insostenibili, non riusciva più a far fronte a tutte le attività di rilievo sociale, pertanto fu costretto a ritrarsi lasciando spazio ai privati; dall’altra parte, le aziende che operano nel mercato non avevano interesse a investire in settori poco redditizi. Fu così che questo spazio vuoto lasciato da entrambi, Stato da un lato e mercato dall’altro, fu gradualmente occupato da tale nuova figura: il terzo settore.
Questa la storia, a grandi linee. Veniamo dunque al diritto. Nel 2016 la legge delega n.106, attuata nel decreto legislativo n.117 /2017, darà luce al Codice del Terzo Settore. Risolverà, da un lato, il problema del groviglio normativo a cui erano sottoposti tutti gli enti no profit e, dall’altro, l’inidoneità del Codice Civile a farsi carico delle esigenze di questo settore. La legge enucleerà una lunga lista di tipologie di enti che rientrano nel novero e che sono le più varie: dagli enti di volontariato a quelli filantropici; dalle società di mutuo soccorso fino a quelle sportive dilettantistiche. Ciò che mi preme maggiormente di comunicare al pubblico è contenuto negli articoli 4 e 5, i quali descrivono il fine di quei soggetti (quelli bravi direbbero: “l’elemento teleologico”). Per essere definiti enti del terzo settore, questi devono necessariamente avere una finalità civica, solidaristica e senza scopo di lucro. Proprio quest’ultimo aspetto induce alcune persone a stupirsi quando, nell’interfacciarsi con gli ETS, si scontrano con la non gratuità dei servizi offerti. Va pertanto chiarito che per lucro si intende la distribuzione dell’utile, la quale è preclusa dalla legge a tali enti. L’art. 8 del Codice del Terzo Settore disciplina, infatti, con grande severità i casi di elusione di tale obbligo. D’altro canto, dispiace constatare come non sia un caso che i conti della maggior parte di quegli enti siano spesso in rosso.
A proposito di controlli, vale la pena menzionare anche un ulteriore limite a cui il terzo settore è sottoposto, disciplinato dall’art.5, rubricato come “Attività di interesse generale”. Ebbene sì, se non bastasse la formulazione generica delle finalità di cui sopra, viene in soccorso una enucleazione specifica dei tipi di attività che gli ETS possono avere ad oggetto. Quindi il primo controllo avviene già nella fase iniziale, statutaria dell’ente: lo statuto, appunto, deve essere conforme alle linee guida del Codice di Terzo Settore. La verifica di tale congruità costituisce un costo per l’ente che deve spesso avvalersi di una figura professionistica a tal fine. Un secondo controllo pertiene al recente RUNTS (Registro Unico Nazionale del Terzo Settore), l’iscrizione a questo garantisce sia l’avvenuta evasione del primo controllo, sia la possibilità per l’ente di accedere più agevolmente ai regimi fiscali che spettano agli ETS. Da ultimo, il Consiglio Nazionale del Terzo Settore, che prevede una fortissima rappresentanza di questi soggetti. Esso esercita una funzione propulsiva e coadiuvante, sia in ambito normativo che finanziario, per favorire la crescita e il potenziamento dell’azione del terzo settore.
In conclusione, questo spunto mira a favorire una maggiore consapevolezza dell’importanza, della serietà e dell’impronta decisiva che il terzo settore ha nel nostro mondo, oggi. Queste virtù gli derivano dalla storia, lentamente vi si sta appropinquando anche il diritto, nel favorirle e tutelarle. La speranza è che questo processo sia prima compreso, poi accolto e infine sostenuto anche dalla società.
Articolo a cura di Gianluca Marrone
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