
Premessa: la demenza è una condizione neurodegenerativa che colpisce milioni di persone in tutto il mondo, portando a una progressiva perdita delle capacità cognitive, come la memoria, la capacità di risolvere problemi, il pensiero, l’orientamento. Ebbene, essendo degenerativa, essa domanda già in origine una forma di accettazione da parte di chi voglia accingersi a combatterla. Per cercare di rallentare il declino, spesso si ricorre alla stimolazione cognitiva, che comprende attività pensate per mantenere attive le capacità mentali. Sebbene queste attività possano essere utili, sembrano non riuscire, alle volte, a produrre effetti evidenti o duraturi; nonostante gli sforzi, anzi forse proprio a causa di questi, può generarsi un forte senso di frustrazione. La demenza è una malattia complessa e il suo impatto varia da persona a persona: alcuni giorni la persona sembra più coinvolta e reattiva, mentre altri giorni può sembrare disinteressata o incapace di rispondere. Questa imprevedibilità può alimentare un senso di inutilità in chi sta cercando di stimolare il paziente, soprattutto quando appunto quegli sforzi sembrano non fare alcuna differenza.
In questi casi, vorrei prima di tutto evidenziare quanto sia importante che la stimolazione cognitiva venga svolta da una persona esterna e non dal caregiver principale o da altri affini. Sebbene il caregiver possa avere un legame affettivo profondo con il paziente, proprio il coinvolgimento emotivo può influenzare la capacità di portare avanti l'attività in modo obiettivo. La figura esterna, invece, può garantire un approccio più neutro e professionale, creando uno spazio di interazione che non sia segnato dal carico emotivo del caregiving quotidiano. Questo non solo aiuta a mantenere l'efficacia della stimolazione, ma può anche evitare che la frustrazione del caregiver influenzi negativamente il paziente. Non è tanto una questione tecnica fine a sé stessa, ma di funzionalità rispetto allo scopo, che è quello di far lavorare in serenità l’assistito a seconda delle sue possibilità, serenamente, senza stravolgere né la propria vita né tantomeno le sue relazioni. I coniugi facciano i coniugi, i genitori facciano i genitori, i fratelli facciano i fratelli, gli operatori facciano gli operatori.
La difficoltà aumenta quando la persona assistita sembra non rispondere, non partecipa o appare completamente inerte. In quei momenti, il sentimento di frustrazione che ne nasce sembra irremeabile: quasi che anche noi fossimo contagiati da una incapacità anch’essa a sua volta sottoposta alla spada di Damocle della degenerazione. La sensazione di impotenza viene amplificata dalla rapidità con cui la malattia progredisce, senza che si vedano risultati concreti dai tentativi di stimolazione. La demenza non solo cambia le capacità cognitive, ma modifica anche il rapporto della persona con il mondo che la circonda, questo ci impedisce spesso di vedere anche i piccoli progressi.
Ecco che quindi diventa fondamentale tornare all’origine del problema e quindi accettare. Accettare che non tutti i giorni saranno uguali. Accettare che i miglioramenti non sono sempre immediatamente visibili. Accettare infine, la nostra frustrazione. La stimolazione cognitiva è utile, ma non può fermare il decorso della malattia. È importante concentrarsi sul valore del processo, sul fatto che ogni attività, anche se non porta risultati immediati, può comunque fare la differenza per la qualità della vita della persona. La demenza è una malattia che evolve nel tempo, è vero, ma anche la nostra vita. Le persone sane fanno ciò che serve loro per vivere e non per morire; la stimolazione cognitiva è la stessa, identica attività della persona sana, fatta dalla persona malata. È il distogliere lo sguardo dalla malattia e dalla morte per rivolgerlo alla vita.
Articolo a cura di Gianluca Marrone,
laureando in Giurisprudenza
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