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Alzheimer e poesia: quando la parola resiste al silenzio


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L’Alzheimer è una condizione neurodegenerativa che colpisce la memoria, erode l’identità e la connessione con il mondo circostante. In un’epoca in cui la scienza e la medicina cercano soluzioni per rallentare il decorso della malattia, è l’arte (e in particolare la poesia) a offrirci gli strumenti più profondi per comprenderne la dimensione umana. Essa con la sua capacità di esprimere emozioni e stati interiori complessi, riesce a raccontare ciò che la parola comune non sa dire: la perdita, la solitudine, la confusione e la dolcezza che convivono nell’esperienza dell’Alzheimer.

Attraverso immagini e linguaggi evocativi, la poesia dà voce a un’esperienza che sfida le capacità umane di comprensione e comunicazione. Per chi convive con tale realtà, diventa uno specchio che riflette non solo il dolore dell’oblio, ma anche l’intensità dei sentimenti che resistono. Per chi assiste, rappresenta un mezzo per elaborare la frustrazione e la tristezza legate al lento svanire di una persona amata. Le parole, dense di simbolismo, diventano strumenti per catturare l’essenza di una condizione che sfugge alla logica medica, restituendole una forma di dignità e di senso.

In questo orizzonte si inseriscono tre opere centrali della poesia contemporanea: Ricordi di Alzheimer di Alberto Bertoni, Le beatitudini della malattia di Roberta Dapunt e Trittico del distacco di Pasquale Di Palmo.


“Mi considerava un amico, un collega, un vicino di casa

 e diceva che il figlio era un tipo strano, sempre in America".

(A. Bertoni)


In tutte, l’esperienza poetica nasce dal dialogo interrotto con un genitore colpito dalla demenza. Di fronte al linguaggio che si svuota e si spezza, il poeta cerca nuove forme di prossimità: gesti, immagini, frammenti di memoria che tentano di dire l’indicibile. La parola poetica si fa allora “legame” (nel senso etimologico di logos come filo che unisce) e diventa spazio d’incontro oltre il silenzio della malattia.

Il tema centrale è la relazione: padri che diventano figli, figli che si scoprono padri, in un doloroso scambio di ruoli che mette in crisi l’identità di entrambi. La poesia si trasforma nel luogo in cui questa frattura può trovare un significato, diventando un atto di cura e di resistenza. Attraverso la parola, il poeta conserva ciò che la malattia distrugge come i ricordi, le abitudini, il volto amato, trasformandosi in “archivista muto” della memoria dell’altro.

Per Roberta Dapunt, l’Alzheimer è anche una soglia verso una nuova forma di presenza: nel silenzio e nella perdita si può intravedere una “beatitudine”, una serenità che accetta l’assenza come parte dell’esistenza. In questo modo, la poesia non si limita a testimoniare il dolore, ma diventa linguaggio terapeutico, gesto d’amore e strumento di empatia. Essa restituisce umanità a chi la malattia ha spogliato di identità, e ci ricorda che, anche nell’oblio, può sopravvivere una forma di comunicazione minima, fragile, ma essenziale.


Sono nella tua demenza il potere e la direzione, l’autorità e la volontà egemonica. Sono l’ordine di ogni tuo movimento, del tuo viso lavato, del fazzoletto che tieni in tasca. Sono la testa, la guida alla tua ubbidienza. E sono il precetto quotidiano e la regola di condotta. L’impero dentro al quale trascorri l’esistenza.

(da Locuzioni Amare)

 

La poesia sull’Alzheimer, dunque, non parla solo della malattia: parla di noi, della memoria e del legame profondo che unisce le persone oltre la parola.

È la parola che resiste al silenzio e che, nel ricordare per due, continua a custodire la vita.



Articolo a cura della Dott.ssa Federica Calasso

Laureata in Scienze e Tecniche Psicologiche

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